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Il vero odore del compromesso

Leggo sui media della mozione “Basta all’erosione della sovranità nazionale”, nella quale la Lega dei Ticinesi chiede al Consiglio di Stato – di cui detiene la maggioranza relativa – di assumere un atteggiamento più chiaro e “privo di compromessi” nella difesa della sovranità cantonale e nazionale. Non entro qui nel merito degli obiettivi dell’atto parlamentare, la mia è un’obiezione di metodo: a me non piace, anzi spaventa, quel “privo di compromessi”.

La parola “compromesso” – un tempo positiva, se non addirittura mito fondante del modello politico svizzero, il “compromesso elvetico” – sta assumendo sempre più un’accezione negativa, fino quasi a puzzare. Quasi significasse mancanza d’idealismo, integrità, di dirittura morale; mancanza di coraggio, di forza, di consistenza e perfino di onestà. Quasi significasse “calare le braghe”, arrendersi, non essere sufficientemente battaglieri. Ma nel vocabolario svizzero la parola “compromesso” ha un altro significato, quello di pragmatismo, pluralismo, tolleranza. Quello di vita. Non vuol dire né inciucio né capitolazione. Vuol dire incontrare l’altro, in una soluzione più o meno a metà strada, forse non ottimale ma positiva per tutti. Una soluzione equilibrata. La base di quel “governo attraverso la discussione” teorizzato da John Stuart Mill e opposto al “governo attraverso la forza”. Un governo peraltro che si rispecchia nel dna politico elvetico, attraverso il principio della concordanza. Solo dove c’è compromesso, c’è vita: nei rapporti personali, fra sindacati e datori di lavoro (la pace del lavoro!), nel coesistere in una nazione – senza ferirsi e senza spaccarsi – di più culture, lingue, credo, generazioni, sensibilità. Nel compromesso, a ben guardare, sta il mondo intero.

Un’attitudine, questa, ancora più necessaria in un momento in cui, dopo un periodo di crescita economica e sociale positiva più o meno per tutti, la stagnazione che stiamo vivendo alimenta divisioni, contrasti e, soprattutto, fomenta tutta una serie di pericolosi e spiacevoli “ismi”: fanatismo, populismo, sessismo, razzismo, estremismo. Se ne è parlato anche su questo giornale, partendo dall’emergere in quel di Biasca di un giovane focolaio nazista. Oggi è più che mai necessario contrapporre al “tutti contro tutti” tipico di quando suona la campanella, finita la ricreazione, un forte e chiaro “Uno per tutti. Tutti per uno”, che non a caso è dipinto sul soffitto della sala che ospita i lavori del Gran Consiglio. Il che significa, incontrovertibilmente, fare dei compromessi, tra di noi e con gli altri.

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Rimettiamoci in discussione

Ogni compito deve essere valutato periodicamente al fine di verificare se è ancora necessario e utile e se il carico finanziario che comporta è sopportabile”. A dirlo non sono io, o il PLR, ma i cittadini del Cantone che lo scorso anno – era il maggio del 2014 – si sono dotati di uno strumento di disciplina finanziaria, il freno ai disavanzi, e hanno inserito nella Costituzione cantonale questo e altri principi di gestione finanziaria. Una gestione finanziaria che deve essere all’insegna della legalità, della parsimonia, dell’economicità, dell’equilibrio a medio termine e, appunto, animata da una costante valutazione non solo di ogni nuovo, ma anche e soprattutto di ogni vecchio compito.

Meglio ricordarlo perché quando lo stato delle finanze è precario – il debito pubblico a fine 2016 si attesterà attorno ai 2 miliardi di franchi – e la necessità di ripristinare a medio termine una rotta di equilibrio finanziario è sempre più impellente – sia per non ribaltare la fattura della politica di oggi ai contribuenti di domani, sia per mantenere una certa capacità di investimento da parte dello Stato – si fa sempre più forte e intrigante la tentazione di opporsi sistematicamente a nuove spese e nuovi compiti per lo Stato. Tutto nella speranza di risolvere magicamente le cose. Un ragionamento, questo, semplicistico quanto pericoloso, perché porta con sé l’annullamento del principio stesso del Progresso. Un ragionamento direi anche irresponsabile, perché segno di una politica e di politici che non hanno né la voglia né il coraggio di valutare criticamente non solo ciò che si vuole fare, ma anche e soprattutto ciò che già si fa. A vederla bene, si tratta di una rinuncia allo stesso fare politica. O una fuga dalle proprie responsabilità.

Una fuga che non piace. Per questo risulta ancora più importante dare finalmente seguito alla mozione del gruppo PLR – primo firmatario Franco Celio – nella quale si chiede al Consiglio di Stato di esaminare l’intero corpus legislativo con l’intento di abrogare le leggi non più necessarie, che generano inutile burocrazia e costi per lo Stato, senza con ciò arrecare necessariamente discapito alle esigenze di gestione dello Stato né alla prestazione di servizi necessari alla cittadinanza. Qualcosa del genere era già stato fatto, arrivando all’abrogazione di tutta una serie di leggi desuete varate ancora nell’Ottocento: riprendiamo quel lavoro, esaminando l’insieme delle leggi, anche le più recenti, la cui reale necessità non può né deve – per questo semplice fatto – essere data per acquisita. I tempi cambiano, ma le leggi restano: non è sempre giusto così. A questa proposta del PLR, datata maggio 2010, occorrerebbe dunque e finalmente dar seguito: anche perché c’è chi sta già organizzando il Capodanno 2016…

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RSI sopra le parti?

RSI sopra le parti?

Non ci sono dubbi, la RSI dovrebbe dare più spazio alle mie idee e al mio partito. Questo lo spirito – comprensibile ma non giustificabile – che anima alcuni commenti alla votazione popolare dello scorso giugno sulla reimpostazione del canone radiotelevisivo. Non siamo più nell’epoca del monopolio e dei giornali di partito, dove la radiotelevisione pubblica giocava un ruolo centrale e super partes, ma la RSI resta comunque il riferimento principale, il più seguito e in un certo senso ancora il più autorevole per una buona fetta di persone. Uno strumento d’informazione e dunque di potere – “chi controlla l’informazione controlla il potere” scriveva Orwell in “1984” – nel quale evidentemente ogni cittadino e ogni politico vogliono rivedere le proprie idee e le proprie azioni, anche in virtù della loro (probabile) partecipazione al suo finanziamento. Siamo sinceri, di destra, di sinistra o di centro, alla radiotelevisione pubblica chiediamo di confermare la nostra visione del mondo: se ciò non avviene, siamo indotti ad accusare la RSI di faziosità, disinformazione e perfino – spero solo provocatoriamente – di propaganda. Lungi da me fare la ramanzina: mi ci metto naturalmente anch’io, tra i primi a innervosirmi se non trovo corretto un resoconto sull’attività del Gran Consiglio.

Se però prendiamo un po’ di distanza emotiva, ci accorgiamo che in realtà le critiche piovono da tutte le aree di pensiero. Strano ma vero. Me ne sono reso conto durante le ricerche per la mia tesi di laurea in Storia all’Università di Losanna, poi pubblicata dall’editore L’Ulivo (“Reporter – La storia dell’informazione alla TSI”, 2011). Da sempre e da tutte le parti con, è vero, un certo spostamento del baricentro: nella prima metà del Novecento la critica alla radio viene soprattutto da sinistra, mentre con la Guerra fredda e l’avvento della TV la critica proviene maggiormente da destra. Particolarmente calda, alcuni lettori se ne ricorderanno, la metà degli anni Settanta (1974-1978). Da sinistra si criticano i legami con i partiti al potere, la lottizzazione, la “leggerezza di alcune trasmissioni”, la spettacolarizzazione dell’informazione indirizzata all’emozione facile, al “folclore nostraneggiante” e al disimpegno culturale. Da destra, invece, si contestano il conformismo progressista, il troppo spazio a visioni critiche o a tabù come la sessualità e un costante anticlericalismo. Tanto che, nel 1977, in giro per Lugano sono disseminati dei vecchi televisori dipinti di rosso e con la scritta “La TSI è rossa”.

Nella mia ricerca ho anche cercato di spiegare questa pioggia polarizzata e ambivalente di critiche con alcune ipotesi. Dalla “percezione selettiva” – concetto sociologico secondo il quale il destinatario interpreta, modifica e modella il messaggio che sente, anche alterandolo – alla specificità dei media audiovisivi rispetto ai più usuali giornali (volatilità dell’emissione, problemi redazionali, difficoltà tecniche), passando per un pubblico composito non sempre abituato e predisposto a un medium pubblico che deve riflettere “la pluralità di atteggiamenti e di opinioni”.

Fra le conseguenze dirette e indirette di quel periodo di fuoco, invece, sono da rilevare un pericoloso meccanismo di autocensura individuale (da parte del giornalista) o istituzionale (da parte della stessa RSI), ma soprattutto una positiva codificazione normativa, con da una parte l’emanazione di tutta una serie di regolamenti, direttive e codici deontologici e, dall’altra, la professionalizzazione del giornalismo e lo sviluppo di una specifica formazione professionale (dal 1969 solo interna, poi dal 1975 con l’istituzione del corso per giornalisti).

Delle risposte a mio avviso ancora attuali per fare in modo che si rispetti quanto stabilito da Legge e Concessione, vale a dire che la RSI deve contribuire “alla libera formazione delle opinioni del pubblico mediante un’informazione completa, diversificata e corretta, in particolare sulla realtà politica, economica e sociale”. Una frase che da cittadino, e da spirito liberale, non posso che condividere e difendere. Come aggiornarle, quarant’anni dopo? Soprattutto rilanciando l’idea di servizio pubblico. Che per definizione non può sempre rispecchiare gli interessi particolari, ma deve perseguire sempre quelli generali, tramite la competenza e la presenza di regole deontologicamente chiare.

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FFL

Sostegno convinto a un Festival libero

Il Festival del Film di Locarno è un gioiello che permette ogni anno al nostro Cantone di presentarsi quale attore protagonista a livello nazionale e internazionale, con la Piazza Grande che, oltre a trasformarsi in una tra le sale cinematografiche più belle e suggestive al mondo, diventa una vera e propria piazza di incontro di storie, idee, fatti e persone. Si tratta, al tempo stesso, di una finestra sul mondo (per noi) e sul Ticino (per gli altri): basterebbe questo a motivare la recente decisione del Gran Consiglio di concedere alla rassegna cinematografica un aiuto finanziario di 2.8 milioni l’anno fino al 2020.

Alla base della decisione del parlamento cantonale ci sono però altre due motivazioni.

1. In primo luogo l’indiscutibile e imprescindibile indotto economico, turistico e culturale del Festival del film di Locarno. Ricadute tra i 20 e i 30 milioni di franchi; centinaia di giovani studenti che ogni anno vi lavorano aquisendo esperienza, professionalità e solidità; il 14% dei festivalieri che ritorna in Ticino per le proprie vacanze: poche cifre mostrano che al di là degli slogan tremontiani con la cultura si mangia e si cresce, economicamente e culturalmente. Anche per questo tutta una regione, il Locarnese, si è unita e stretta attorno al suo Festival: lo si vede da una parte nei contributi pubblici da parte dei Comuni (quasi 400’000 franchi) e dall’altra nell’adesione generale al progetto di Palazzo del cinema, il quale non solo migliorerà la situazione logistica della manifestazione, ma consoliderà la qualità della rassegna cinematografica e la vocazione turistica e culturale di una regione che in questo ambito ha davvero molto da dire. Non è solo una casa: il Palazzo del cinema è un’idea di sviluppo e progresso sociale, economico e formativo attorno alla filiera dell’audiovisivo.

2. In secondo luogo gli obiettivi posti dal Gran Consiglio nel corso degli anni sono stati raggiunti: non solo vi è stata una professionalizzazione della struttura, con tutto quanto ne consegue in termini di efficienza ed efficacia operativa, ma vi è stata anche l’auspicata estensione geografica – con il coinvolgimento dei principali centri del Cantone – e temporale – pensiamo a L’immagine e la parola – della manifestazione.

È però necessario ribadire un concetto fondamentale: al Festival del film di Locarno vanno garantite la più totale libertà sui contenuti artistici e la più totale indipendenza e autonomia rispetto agli sponsor pubblici e privati. Ne va, e non credo di esagerare, della credibilità se non del futuro stesso del Festival.

Oggi vi sono infatti oltre 3’000 film festival: la concorrenza è sempre più agguerrita – Zurigo in testa – e per non subirla il Festival deve mantenere un’identità artistica precisa, che oggi significa apertura, curiosità, pluralità e libertà. Perché questo è lo spirito di Locarno, natura e forza del nostro Festival. La politica non si deve occupare né di film né di artisti, perché l’arte e solo l’arte deve rimanere al centro delle scelte. Compito dello Stato e della politica è semmai quello di porre le basi per lo svilupparsi dell’arte stessa e di garantirne e difenderne la sua libertà (peraltro garantita dalla costituzione, come la libertà di espressione). E questo anche quando il cinema è critico nei confronti dello Stato stesso. E penso al caso di Vol special, documentario ambientato in un centro di detenzione per sans papiers in attesa di essere espulsi, che nel 2011 ha scosso le coscienze mostrando la spinosa realtà di una Svizzera sempre meno “terra d’asilo”. Questa è infatti la forza di uno stato profondamente e radicalmente democratico, come noi vogliamo e dobbiamo essere, indipendentemente da quali e quante bandiere esponiamo sugli edifici pubblici.

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La formazione continua è vitale

In un mondo in continua evoluzione, il posto di lavoro fisso non esiste più. Delle persone attive in Svizzera nel 2012, oltre il 10% ha cambiato il posto di lavoro entro un anno. Diplomi e certificati, dopo 10 anni, sono spesso solo pezzi di carta. A questa evoluzione del mercato del lavoro occorre rispondere per tempo posizionando la formazione continua nelle priorità dell’agenda politica, incentivando fiscalmente la formazione da parte dei lavoratori, sensibilizzando i datori di lavoro sull’importanza e il ritorno anche per l’azienda di tali investimenti e, non da ultimo, strutturando un’offerta formativa di qualità, senza lacune né doppioni.

Segnali positivi fortunatamente non mancano e su questa strada occorre proseguire con decisione. Un plauso – sì, anche in campagna elettorale si può dire “bravi”, senza per forza sempre criticare – per la freschissima decisione di creare un Istituto della formazione continua che permetta di attivare le necessarie sinergie per incrementare sia la qualità che la quantità dell’offerta. Non sarebbe male se in futuro tale istituto potesse occuparsi anche di coordinare le varie attività private e associative, in modo da ampliare ancora di più l’offerta generale evitando sovrapposizioni.

Ma non basta: sono necessari anche degli incentivi fiscali. Dal 2016 chiunque sosterrà corsi di aggiornamento professionale o corsi di riqualifica (frequentando seminari, congressi, workshop, ecc.) dovrà poter dedurre tali costi per un massimo di 12mila franchi non solo dall’imposta federale diretta, ma anche dall’imposta cantonale: è questo il margine di manovra concesso dalla nuova legge federale sul trattamento fiscale delle spese di formazione e perfezionamento professionali che permetterà ai Cantoni, quindi anche al Ticino, di applicare tale deduzione. Si tratta di un’estensione importante delle deducibilità che incentiverà l’aggiornamento professionale.

Che la formazione continua stia diventando un tassello sempre più determinante a vari livelli, innestandosi su reti sempre più allargate e trasversali di cittadini, aziende, istituzioni ed enti formatori, è dimostrato anche dalla nuova legge federale sulla formazione continua, che dovrebbe essere realtà nel 2017. Sempre a livello federale sono inoltre da valutare delle modifiche del secondo pilastro volte a permettere di sopperire all’assenza di salario in caso di un periodo di aggiornamento professionale.

Tutto questo – e altro ancora, da inventare nei prossimi mesi – con la consapevolezza che la formazione continua è diventata una necessità fondamentale non solo per lavoratori e aziende, ma soprattutto per una realtà – come la nostra – che deve puntare sull’eccellenza. È questo, infatti, il miglior modo per combattere l’effetto sostitutivo di manodopera residente tanto temuto alle nostre latitudini: la competenza, non la chiusura!

Nicola Pini, vicepresidente PLR e candidato al Consiglio di Stato

Corriere del Ticino, giovedì 9 aprile 2015

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Dentro il partito: il PLR

I candidati al Governo ticinese intervistati da Massimiliano Herber

Ospiti della quinta puntata di “Dentro il partito”, i candidati al Consiglio di Stato ticinese della lista del PLR: Michele Bertini, Alex Farinelli, Natalia Ferrara Micocci, Nicola Pini e Christian Vitta.

Rivedi la trasmissione del 23 marzo 2015

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nicola

Albachiara intervista Nicola Pini: “Idee, confronto e dialogo”

“Buongiorno Ticino. Ripartiamo dopo, spero, qualche ora di sonno. Ripartiamo per una nuova giornata. E ripartiamo anche per un futuro politico fatto di idee, di confronto e di dialogo: Ripartiamo assieme, se lo vorrete. Politicamente sono stato presidente cantonale e vicepresidente nazionale dei giovani liberali, sono presidente distrettuale del Locarnese, sono stato candidato al consiglio Nazionale nel 2011 e nel 2012 ho sfiorato per una manciata di voti la presidenza del partito, di cui sono vicepresidente. E sono felicissimo di poter passare questa mattinata assieme a voi”.

Ascolta la trasmissione integrale

RSI, Albachiara, mercoledì 8 aprile 2015

 

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“Più impegno sulla scuola oggi siamo fra gli ultimi per la spesa pro capite”

Avere due miliardi da investire sarebbe un sogno”. E il sogno di Nicola Pini, 30 anni, candidato plrt, è quello di una politica che prima di tutto pensi a migliorare le condizioni quadro per un rilancio del Ticino. “Il primo ambito d’investimento dovrebbe essere quello della formazione, della scuola, della cultura”. Un obiettivo che parte da una constatazione critica sullo stato attuale: “Oggi come Ticino spendiamo poco per la scuola, siamo fra gli ultimi Cantoni per spesa pro capite per allievo. Dobbiamo invertire la tendenza”.

Anche senza avere proprio tutti e due i miliardi, per Pini, è necessario investire di più nella scuola dell’obbligo, nei servizi parascolastici, nelle mense, nei trasporti, nel doposcuola, nell’orientamento professionale. “Occorre poi promuovere un cambiamento culturale nelle famiglie e nei giovani verso la formazione professionale, che oggi può garantire anche una migliore prospettiva di carriera rispetto al liceo”, sostiene Pini, che punterebbe in modo consistente sulla formazione continua: “Dobbiamo renderci conto che il posto fisso oggi non esiste più, che nel corso della vita professionale occorre rinnovarsi, adeguarsi, migliorarsi. Cambiare. Per questo nell’attuale mercato del lavoro l’investimento nella formazione continua diventa un’esigenza sempre più forte”.

Formazione, ma anche sostegni all’innovazione, alla ricerca, alle start-up più che mai necessari per potenziare le condizioni quadro del “sistema Paese”. “Ma non bisogna dimenticare gli investimenti per le infrastrutture. Penso alla mobilità fisica, al miglioramento dei collegamenti ferroviari necessari con l’arrivo di Alp Transit, ma anche a quelle stradali ormai molto intasate. Mobilità fisica e mobilità dei dati, ovvero connettività veloce per tutti che deve diventare la nostra nuova frontiera perché significa nuove professioni, nuove modalità di lavori, nuove opportunità per tutti”.

NicolaPini, Vicepresidente del Plrt, 30 anni, di Locarno, candidato liberaleradicale per Consiglio di Stato

Il Caffè, domenica 5 aprile 2015

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04Studioso

La scuola deve venire

La scuola che verrà è la proposta – con pregi e difetti – di Manuele Bertoli per rilanciare il tema formazione nell’agenda politica cantonale. La scuola che non verrà è invece la risposta di non entrata in materia degli oppositori: uno slogan elettoralistico e conservatore che a dirla tutta mi fa rabbrividire, perché la scuola deve venire. E deve venire dopo un profondo e ampio dibattito pubblico. Di questa necessità ne tenga conto chi spinge a tutto gas una nuova e diversa scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

È tempo di intavolare un dibattito vero sulla scuola. Un dibattito che sfugga alle solite tiritere, oscillanti tra il conservatorismo, l’utilitarismo e l’ipocrisia, con proposte semplicistiche e reboanti che pretendono di risolvere tutto: l’educazione civica, l’insegnamento del salmo svizzero, i tablet, le giornate del volontariato, le varie educazioni “mirate” (e fuori contesto).

La buona scuola, infatti, è innanzitutto un’idea. Un’idea di partenza sul senso del suo operato e dunque sul tipo di cittadino e di società che deve contribuire a costruire. In questo senso ogni decisione di fondo sulla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore stesso della politica. La scuola, è giunto il momento di ribadirlo, o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non lo è. Solo così potrà essere ciò che deve essere: un luogo in cui non solo si apprendono nozioni, ma anche dove si formano caratteri e personalità, dove si definisce un approccio al mondo, agli altri, ai problemi e alle opportunità della vita. La scuola di oggi è il Paese di domani, il suo prodotto interno lordo e il suo mercato del lavoro, ma soprattutto i suoi valori, la sua tenuta e la sua coesione.

Tra le cose positive del progetto Bertoli rivedo i valori di sempre (in particolare il concetto di scuola integrativa), il fatto di favorire la collaborazione fra docenti, il desiderio di estrapolare le potenzialità degli allievi e il ritorno di una certa manualità. Tra le cose negative una scarsa attenzione alla scuola dell’infanzia, il delicato passaggio tra scuola media e scuola media superiore (in particolare al Liceo) e la questione – non secondaria – del finanziamento delle riforme. Discutiamone insieme dunque. Perché liquidare la proposta del Decs come ideologica è altrettanto ideologico; e decisamente poco liberale radicale. Anche perché noi siamo per una politica per, non per una politica contro. Soprattutto quando si parla di giovani e futuro.

La Regione, giovedì 2 aprile 2015

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