Non ci sono dubbi, la RSI dovrebbe dare più spazio alle mie idee e al mio partito. Questo lo spirito – comprensibile ma non giustificabile – che anima alcuni commenti alla votazione popolare dello scorso giugno sulla reimpostazione del canone radiotelevisivo. Non siamo più nell’epoca del monopolio e dei giornali di partito, dove la radiotelevisione pubblica giocava un ruolo centrale e super partes, ma la RSI resta comunque il riferimento principale, il più seguito e in un certo senso ancora il più autorevole per una buona fetta di persone. Uno strumento d’informazione e dunque di potere – “chi controlla l’informazione controlla il potere” scriveva Orwell in “1984” – nel quale evidentemente ogni cittadino e ogni politico vogliono rivedere le proprie idee e le proprie azioni, anche in virtù della loro (probabile) partecipazione al suo finanziamento. Siamo sinceri, di destra, di sinistra o di centro, alla radiotelevisione pubblica chiediamo di confermare la nostra visione del mondo: se ciò non avviene, siamo indotti ad accusare la RSI di faziosità, disinformazione e perfino – spero solo provocatoriamente – di propaganda. Lungi da me fare la ramanzina: mi ci metto naturalmente anch’io, tra i primi a innervosirmi se non trovo corretto un resoconto sull’attività del Gran Consiglio.
Se però prendiamo un po’ di distanza emotiva, ci accorgiamo che in realtà le critiche piovono da tutte le aree di pensiero. Strano ma vero. Me ne sono reso conto durante le ricerche per la mia tesi di laurea in Storia all’Università di Losanna, poi pubblicata dall’editore L’Ulivo (“Reporter – La storia dell’informazione alla TSI”, 2011). Da sempre e da tutte le parti con, è vero, un certo spostamento del baricentro: nella prima metà del Novecento la critica alla radio viene soprattutto da sinistra, mentre con la Guerra fredda e l’avvento della TV la critica proviene maggiormente da destra. Particolarmente calda, alcuni lettori se ne ricorderanno, la metà degli anni Settanta (1974-1978). Da sinistra si criticano i legami con i partiti al potere, la lottizzazione, la “leggerezza di alcune trasmissioni”, la spettacolarizzazione dell’informazione indirizzata all’emozione facile, al “folclore nostraneggiante” e al disimpegno culturale. Da destra, invece, si contestano il conformismo progressista, il troppo spazio a visioni critiche o a tabù come la sessualità e un costante anticlericalismo. Tanto che, nel 1977, in giro per Lugano sono disseminati dei vecchi televisori dipinti di rosso e con la scritta “La TSI è rossa”.
Nella mia ricerca ho anche cercato di spiegare questa pioggia polarizzata e ambivalente di critiche con alcune ipotesi. Dalla “percezione selettiva” – concetto sociologico secondo il quale il destinatario interpreta, modifica e modella il messaggio che sente, anche alterandolo – alla specificità dei media audiovisivi rispetto ai più usuali giornali (volatilità dell’emissione, problemi redazionali, difficoltà tecniche), passando per un pubblico composito non sempre abituato e predisposto a un medium pubblico che deve riflettere “la pluralità di atteggiamenti e di opinioni”.
Fra le conseguenze dirette e indirette di quel periodo di fuoco, invece, sono da rilevare un pericoloso meccanismo di autocensura individuale (da parte del giornalista) o istituzionale (da parte della stessa RSI), ma soprattutto una positiva codificazione normativa, con da una parte l’emanazione di tutta una serie di regolamenti, direttive e codici deontologici e, dall’altra, la professionalizzazione del giornalismo e lo sviluppo di una specifica formazione professionale (dal 1969 solo interna, poi dal 1975 con l’istituzione del corso per giornalisti).
Delle risposte a mio avviso ancora attuali per fare in modo che si rispetti quanto stabilito da Legge e Concessione, vale a dire che la RSI deve contribuire “alla libera formazione delle opinioni del pubblico mediante un’informazione completa, diversificata e corretta, in particolare sulla realtà politica, economica e sociale”. Una frase che da cittadino, e da spirito liberale, non posso che condividere e difendere. Come aggiornarle, quarant’anni dopo? Soprattutto rilanciando l’idea di servizio pubblico. Che per definizione non può sempre rispecchiare gli interessi particolari, ma deve perseguire sempre quelli generali, tramite la competenza e la presenza di regole deontologicamente chiare.