Onsernone da Gresso

Spazi decentralizzati sul territorio per dipendenti dell’amministrazione cantonale

Dando seguito alla mozione “Meno traffico e costi, più sviluppo, qualità di vita e migliore conciliabilità tra lavoro e famiglia grazie al telelavoro”, presentata da Nicola Pini e Natalia Ferrara, nel giugno del 2018 il Consiglio di Stato ha autorizzato l’avvio della fase sperimentale del progetto “Telelavoro in Amministrazione cantonale”che si estende sull’arco di un anno e che coinvolge una cinquantina di collaboratori, prevedendo la possibilità di lavoro a distanza svolto al domicilio del dipendente o in sede alternativa per una durata a partire da mezza giornata, fino a un giorno alla settimana, in base al grado d’occupazione. L’obiettivo del progetto pilota è quello di permettere una sperimentazione per approfondire e valutare la possibilità di introdurre, in futuro, un modello di lavoro complementare a quello in un ufficio lontano dal proprio domicilio che tenga in considerazione i temi della conciliabilità tra lavoro e famiglia, di una mobilità più sostenibile (riduzione spostamenti) e di una maggiore attrattiva delle regioni periferiche.

In attesa dei risultati della sperimentazione e – si pensa e spera – dell’implementazione di un sistema definitivo di telelavoro, con questa mozione si chiede al Consiglio di Stato di attivarsi per predisporre delle sedi decentralizzate – nei capoluoghi e nelle regioni periferiche – di proprietà del Cantone, o nei quali il Cantone è già in affitto, degli spazi o uffici a disposizione di funzionari che, saltuariamente o per un giorno fisso la settimana, possono utilizzarli per lavorare in un luogo più vicino al proprio domicilio. Ciò permetterebbe di rafforzare quanto intrapreso, offrendo un’ulteriore opzione a chi, per necessità o volontà, vorrebbe usufruire del telelavoro ma non da casa o deve rispettare determinati standard di sicurezza o confidenzialità. Un’opzione che, oltre alla messa a disposizione di spazi, implicherebbe unicamente di elaborare un sistema di gestione delle riservazioni delle postazioni per evitare che due persone lo stesso giorno abbiano l’idea di lavorare dalla medesima postazione.

Tale opzione potrebbe parzialmente rispondere anche alla richiesta, che torna periodicamente nell’agenda politica cantonale, di delocalizzare parte dell’amministrazione cantonale nelle zone periferiche, in particolare dove l’economia locale tende a stagnare (si vedano i vari atti parlamentari presentati al riguardo). Nel concreto: laddove non è possibile decentralizzare dei servizi cantonali nelle regioni periferiche, si può quantomeno mettere a disposizione dei funzionari che lì vivono degli spazi per poter lavorare saltuariamente.

I sottoscritti Deputati chiedono dunque al Lodevole Consiglio di Stato di predisporre nelle sedi decentralizzate di proprietà del Cantone, o nei quali il Cantone è già in affitto, degli spazi o uffici a disposizione di funzionari che, saltuariamente o per un giorno fisso la settimana, possono utilizzarli per lavorare in un luogo più vicino al proprio domicilio. 

Nicola Pini e Omar Terraneo

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RSi SC Lavoro

Tutti al lavoro per il lavoro!

Formazione, accompagnamento individualizzato e coordinamento interdipartimentale: queste le ricette cucinate dalla Sottocommissione Lavoro e approvate dal Gran Consiglio per dare una nuova prospettiva – e speriamo un nuovo futuro – ai disoccupati di lunga durata e ai giovani in assistenza. Abbiamo dunque deciso di destinare circa CHF 3’000’000 all’implementazione sperimentale in particolare di due nuove e mirate misure attive finalizzate al reinserimento nel mercato del lavoro in particolare di due fasce sensibili, i giovani adulti e gli over 50:

  • l’introduzione di un accompagnamento individualizzato per persone in disoccupazione di lunga durata che si avvicinano alla fine delle indennità (modalità suggerita dal DFE);
  •  l’applicazione in Ticino del modello Forjad (acronimo per Formation pour jeunes adultes), ideato e sperimentato dal Canton Vaud, volto a garantire una formazione secondaria ai giovani in assistenza fornendo assegni di studio e un accompagnamento individualizzato durante il percorso formativo.

Molto importante sarà evidentemente il monitoraggio e la valutazione di queste due misure innovative attraverso un accompagnamento tecnico-scientifico teso a verificare la loro efficacia in termini di attivazione delle competenze e di reinserimento nel mondo del lavoro. Noi ci crediamo.

Leggi l’articolo de La Regione

Leggi il rapporto della Sottocommissione approvato dal Gran Consiglio

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Foto 60 minuti assistenza

Togliere persone dall’assistenza!

Sempre più spesso si parla del tema dell’assistenza: ne abbiamo ad esempio parlato ieri sera a 60 minuti: guarda la puntata. Un fenomeno sul quale vale la pena soffermarci brevemente: dalla storia alle cifre per arrivare alle soluzioni.

Storia

Nel diciannovesimo secolo, e all’inizio del ventesimo, una forma di “assistenza” era gestita prevalentemente da associazioni caritatevoli sia di stampo religioso (ad esempio “Caritas”) che di ispirazione laica (come “Pro Joventute”) finanziate da donazioni private. La partecipazione finanziaria della Confederazione si limitava invece a un 10% del ricavato delle vendite di alcool e alla creazione di orfanotrofi. La prima legge federale data solo del 1977 e attribuisce ai Cantoni il compito di garantire il diritto del cittadino in stato di bisogno ad essere assistito (un diritto inizialmente previsto per i soli svizzeri, poi dal 1995 esteso dal Tribunale Federale a tutte le persone che si trovano su suolo svizzero). Attualmente le prestazioni assistenziali sono coordinate dalla Conferenza Svizzera delle istituzioni per l’azione sociale (CSIAS) che emana direttive non vincolanti per Cantoni e Comuni.

Diamo i numeri

Sono circa 8’000 le persone in assistenza, che equivalgono a circa il 2% della popolazione residente in Ticino, vale a dire una percentuale inferiore alla media nazionale. Di questi, i titolari – a differenza della disoccupazione il numero delle persone in assistenza comprende tutte le persone appartenenti al nucleo familiare siano esse coniugi, conviventi o figli – sono poco più di 5’000. Il 20% (un migliaio di persone) di questi sono occupati, vale a dire che hanno un’occupazione (a tempo parziale o su chiamata) ma che hanno bisogno dell’assistenza per arrivare alla fine del mese. Circa un terzo (quasi due migliaia) non sono invece “occupabili” per malattia (non riconosciuta dall’AI), cura dei famigliari o età avanzata. Resta poi il corpo centrale del 50% (2’500 persone circa) sul quale si concentrano le misure di inserimento professionale – in collaborazione con gli Uffici regionali di collocamento (URC) del Dipartimento finanze ed economia – o di inserimento sociale a cura dell’Ufficio sostegno sociale e inserimento (USSI) del Dipartimento sanità e socialità. Sono quasi un migliaio le persone coinvolte in programmi di questo tipo.

Un sistema dinamico

Il sistema dell’assistenza sociale è dinamico: sono infatti molte (tra 1’500 e 2’000) le entrate e uscite ogni anno. Tra le entrate, va segnalato come solo un quarto dei nuovi beneficiari di assistenza sociale l’anno precedente beneficiava di indennità di disoccupazione. Spicca, fra queste persone, la mancanza di formazione: un’interessante studio della SUPSI (“A 20 anni in assistenza: percorsi di vita dei giovani ticinesi beneficiari di aiuti sociali”) mostra come oltre la metà dei giovani in assistenza (55%) non ha conseguito alcun titolo di studio dopo la scuola media; pochissimi hanno iniziato una scuola medio-superiore e praticamente nessuno l’ha terminata. Vi è dunque un vuoto formativo.

Tra chi esce dall’assistenza, circa un terzo lo fa verso il mercato del lavoro e un terzo verso altre assicurazioni sociali (soprattutto AVS e AI); l’ultimo terzo lo fa invece per altre ragioni (cambiamento di domicilio, decesso, interruzione del contatto). Le categorie di persone che fanno più fatica ad uscire dall’assistenza – e dunque le categorie più sensibili – sono i giovani adulti (20-29 anni) e le persone con più di cinquant’anni (50-59).

Un incentivo per ripartire?

L’assistenza costituisce dunque un sostegno al reddito per un migliaio di persone occupate e un’indispensabile strumento di sussistenza per quasi due migliaia di persone non collocabili. Per tutti gli altri l’obiettivo deve però essere quello di ridare speranza, opportunità e magari anche una formazione a queste persone. Assistenza non può e non deve fare rima con assistenzialismo. Da prediligere sono dunque le misure di inserimento professionale – in particolare sviluppando le collaborazioni già in essere tra DFE e DSS – e sociali, specie in forme innovative. Anche perché le prime portano a un tasso di entrata nel mercato del lavoro di circa il 40%, le seconde del 20%. Persone, queste, che possono così ripartire. Ripartire per davvero. Da notare che l’investimento nelle misure di inserimento nel 2017 – oltre che ridare lavoro a più di un centinaio di persone – ha permesso perfino di risparmiare: 5.7 milioni a fronte dei 7.7 milioni che si sarebbero spesi senza fare nulla. Oltre alle imprese sociali – che piano piano prendono piede anche in Ticino – sono da approfondire il sistema della sostituzione per i giovani adulti delle indennità di assistenza in borse di studio (modello del Canton Vaud) e l’introduzione di un percorso di accompagnamento individualizzato a favore dei disoccupati che arrivano alla fine del diritto o di persone in assistenza giudicate collocabili. Importante anche il ruolo dei Comuni, che hanno un contatto di prossimità con il territorio e i cittadini, e che quindi possono agire sempre in un’ottica di accompagnamento individualizzato (Comuni ai quali occorre evidentemente garantire le risorse a questo scopo).

La prevenzione: evitare di arrivarci, in assistenza

Chiaro è che prima di tutto occorre fare in modo che le persone non ci arrivino, in assistenza. E qui è assolutamente prioritario lavorare sulla formazione, come detto un problema per una parte considerevole di chi è in assistenza. Se l’obiettivo nazionale è di portare al 95% la percentuale di giovani che ottengono entro i 25 anni un diploma secondario II (attestato federale di capacità o scuola media superiore), in Ticino ci fermiamo all’87%. Ciò significa che ogni anno perdiamo dai radar qualche centinaio di giovani che rischiano e rischieranno di finire in assistenza: bisogna qui lavorare a livello di scuola dell’obbligo, di orientamento scolastico e professionale, di formazione continua, di certificazione delle competenze e di riqualifiche professionali. E, naturalmente, di Città di mestieri, che permetterà non solo di fornire un servizio rapido ed accessibile a tutti coloro che hanno bisogno di risposte sul mondo del lavoro o della formazione, ma anche una piattaforma che permette di unire diverse politiche pubbliche attuate anche da servizi o dipartimenti diversi.

 

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dibattito ATAN

Nuovi genitori, nuove politiche

Oggi si parla di asili nido quasi solo per denunciare abusi salariali e quasi mai in termini di necessità, efficienza, accessibilità; stesso discorso per la conciliabilità lavoro-famiglia, dove al centro è posizionato quasi unicamente il ruolo della donna e non anche il ruolo dell’uomo e il beneficio per il bambino. Il tema va però ampliato e affrontato in termini di società: famiglia, ruolo dell’uomo e della donna; lavoro e carriera; educazione e prima infanzia. Compito della politica è infatti adeguare costantemente le politiche pubbliche all’evoluzione della società.

Di fatto, oggi la situazione è cambiata rispetto a qualche decennio fa: i neo-genitori hanno tendenzialmente meno tempo da dedicare ai figli nei primi anni di vita, in quanto spesso entrambi impegnati professionalmente per scelta (passione o ambizione) o per necessità (finanziaria); al contempo, vi è un numero crescente di neo-padri disposti ad assumersi nuove responsabilità nella cura dei figli. Un’evoluzione, questa, che impone un ripensamento delle politiche sociali e del lavoro: occorre ad esempio

  • favorire i tempi parziali – anche per le funzioni dirigenziali – e il lavoro flessibile;
  • introdurre dove possibile il telelavoro (lavoro da casa) per uno o due giorni la settimana, ciò che peraltro permetterebbe anche di ridurre il traffico e schiudere nuove opportunità per le regioni periferiche;
  • regolamentare un congedo paternità di almeno 10 giorni sull’arco del primo anno di vita del bambino, per ridurre il rischio di depressione post-parto, che tocca una donna su dieci, come anche per facilitare il rientro nel mondo del lavoro delle neo-mamme;
  • e, infine, assicurare un numero adeguato di strutture ricettive, come famiglie diurne e asili nido, a cui affidare non solo la cura, ma anche (parzialmente) l’educazione dei bambini nei primi anni di vita.

Strutture che siano quindi di qualità – e non semplicemente dei posteggi… – e accessibili finanziariamente, da capire se attraverso un rafforzamento finanziario delle famiglie più fragili, attraverso un sistema di rette variabili o un aumento del sovvenzionamento alle strutture stesse. In questo senso, l’ente pubblico deve assumersi anche un ruolo di stimolo e coordinamento, ad esempio favorendo un ragionamento di messa in rete tra aziende. Il Cantone non può certo limitarsi ad auspicare l’azione da parte delle aziende, spesso confrontate a importanti costi (seppur investimenti), mancanza di competenze specifiche e soprattutto di massa critica: per questo le imprese vanno incentivate e accompagnate nella realizzazione dei nidi interaziendali. Lo stesso discorso potrebbe inoltre essere portato anche sul piano dei Comuni, in termini di consorzi, proprio come fatto qualche decennio fa con le case per anziani, con le quali si potrebbero peraltro attivare sinergie all’insegna dell’intergenerazionalità.

È davvero il momento di agire, non solo perché a chiederlo è di fatto una nuova generazione alle prese con computer e fasciatoi, ma anche perché in ballo, nell’agenda politica cantonale, vi sono le riflessioni attorno a una riforma della fiscalità delle imprese con le relative misure sociali accompagnatorie annunciate dal Consiglio di Stato, come anche l’elaborazione di un controprogetto all’iniziativa popolare “Asili nido di qualità per le famiglie” da parte della Commissione scolastica del Gran Consiglio. Occasioni da non perdere per una politica che pretende – legittimamente – di guardare al futuro.

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futuro-economico

Una nuova pace del lavoro

L’abbandono della soglia minima del cambio franco-euro ha di colpo rifocalizzato l’attenzione sul mercato del lavoro in Ticino. Tema di per sé già alquanto sensibile, che di colpo sembra però esplodere. È ormai divenuta un’abitudine diffusa, soprattutto in politica, quella di far riferimento a un singolo evento d’attualità per individuarvi improvvisamente la causa di ogni male, evitando però di affrontare i problemi strutturali.

Fanno certo scalpore le misure volte a contenere i costi messe in atto da alcune aziende nel nostro cantone, misure penalizzanti per i lavoratori: l’aumento dell’orario di lavoro, la riduzione di vacanze e salari (da percentuali negoziabili a percentuali oggettivamente meno sostenibili) attestano del pericolo di un peggioramento delle condizioni di lavoro nel nostro cantone. D’altra parte vi sono aziende che davvero soffrono a tal punto la situazione venutasi a creare da valutare la possibilità di delocalizzare le proprie strutture di produzione: e questo non per aumentare i profitti, ma per restare in piedi. Il problema va affrontato tralasciando esagerazioni e reazioni passionali.

Nel passato il nostro Paese ha costruito un modello economico fondato sulla capacità delle parti sociali di dialogare e da questo dialogo, oggi, dobbiamo ripartire.

Le istituzioni devono farsi parte attiva nei conflitti più acuti, ricercando la mediazione e soprattutto impedendo gli abusi che in queste situazioni sono sempre in agguato. Fa dunque oltremodo piacere sapere dell’esito positivo della mediazione avvenuta ieri con la consigliera di Stato Laura Sadis che è riuscita a mettere al tavolo rappresentanti di Exten, sindacato e maestranze. Questo è l’approccio svizzero alla pace del lavoro: uno degli elementi essenziali della stabilità politica e sociale del nostro Paese che ha permesso il raggiungimento di conquiste sociali e materiali per nulla scontate. Questa forma di compromesso elvetico, fondato sulla percezione delle esigenze di padronato e lavoratori, in cui la ragione e il buon senso sono il motore di soluzioni condivise poiché ben ponderate, nella storia ha dato ottima prova di sé. Già in passato la Svizzera non si era arresa alle ideologie, mettendo in campo le sue forze migliori per cercare di capire e di capirsi, per garantire la dignità di chi il lavoro lo fornisce e premiare l’intraprendenza di chi fra mille difficoltà lo crea. Perché, ribadiamolo, uno non può esistere senza l’altro. Gli uni liberi di fare, gli altri liberi dai bisogni.

Solo dal dialogo può scaturire una nuova soluzione. Una soluzione che non può essere lo status quo, perché le condizioni sono cambiate e dunque anche aziende e lavoratori devono cambiare. Le aziende sono chiamate a un senso di responsabilità sociale che forse si era un po’ perso negli anni scorsi, i lavoratori a capire che i tempi sono davvero difficili e che alcune condizioni non sono purtroppo più garantite. E la politica, abbandonando quel ruolo da cenerentola che spesso le va così comodo, deve smetterla di perdere energia nel creare frizioni e fomentare paure. Quelle energie sarebbe meglio investirle nel promuovere attivamente una nuova pace del lavoro che rispecchi il carattere più autentico dello spirito elvetico di cui così spesso tutti quanti andiamo orgogliosi, come anche nel promuovere nuove professioni, nuove modalità di lavoro e nuove rotte di sviluppo economico.

La Regione, sabato 28 febbraio 2015

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Non solo Liceo per i giovani

La politica si batta per dare lavoro ai giovani. Dal Corriere del Ticino di oggi 3 mie IDEE per valorizzare e potenziare l’orientamento professionale: percorsi formativi alternativi al Liceo offrono infatti spesso maggiori garanzie di carriera, con giovani che dall’apprendistato finiscono a lavorare all’Agenzia spaziale europea.

  1. istituire degli incontri periodici tra orientatori e categorie professionali, in modo che la conoscenza fra scuola e lavoro sia sempre migliore;
  2. offrire alle scuole, e agli allievi, mostre, presentazioni, visite in azienda e organizzando serate con i genitori (ad esempio l’Associazione Industrie Ticinesi propone il progetto Industria We like it);
  3. rinnovare Espoprofessioni, che ha margini di sviluppo notevoli, magari introducendo incontri  sul modello della Notte dell’orientamento a Friborgo (dalle 17 alle 21; 40 aziende, 250 giovani; 340 colloqui di 15 minuti), già in essere presso i club di servizio che offrono occasioni di incontro tra professionisti e studenti per informarsi sui percorsi di studio e professionali.

Leggi l’articolo di oggi sul CdT

Leggi l’articolo su Ticinonews

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Per l’occupazione giovanile

Non ci sto!

(editoriale di Opinione liberale, 28 giugno 2013)

Negli ultimi mesi ho visto giovani laureati che si sono visti preferire persone con meno carta ma più esperienza; docenti rifiutarsi di portare gli studenti in passeggiata scolastica per protestare contro i tagli salariali e associazioni di categoria bloccare l’assunzione di apprendisti per rivendicare alcune misure a loro favore. Dopo i “baby boomers” e la “meglio gioventù”, ecco la “generazione stage”, la generazione degli “iperformati ma non ancora abbastanza”, degli “allievi senza passeggiata”. Io non ci sto, non erano questi i patti.

Ogni giovane è cosciente – e se non lo è deve rendersene conto in fretta, se non vuole prendere qualche porta in faccia – che il momento economico non è dei migliori, che i posti di lavoro sicuri e assicurati non esistono più e che, soprattutto, non sarà facile rivivere il benessere della generazione precedente. Solo impegno, tenacia, competenza e flessibilità permetteranno di emergere. Forse. Perché occorre un’opportunità, qualcuno che investe su di te. E, al di là belle parole, forse complice la congiuntura economica, l’impressione è che spesso si faccia fatica a investire su di loro: prevale la logica del corto termine, se non si giunge addirittura alla mera strumentalizzazione politica, come avvenuto recentemente, dando uno schiaffo al futuro.

Per rilanciare l’occupazione giovanile – comunque ancora positiva, se paragonata al resto del mondo – non occorre cambiare legislazione, ma mentalità: ai giovani non serve un reddito di cittadinanza garantito, servono opportunità e fiducia. Se negli Stati Uniti due giovani si chiudono in un garage e hanno un’idea che funziona, il rischio è di trovare un finanziamento da parte di aziende del venture capital; in Ticino, invece, il rischio è piuttosto che piombi loro in casa la polizia per qualche ordinanza sul rumore o sull’igiene. Anche se, fortunatamente, qualcosa si sta muovendo, pensiamo alla Fondazione Agire. Il Ticino che mi piace è quello del sostegno alle start up, quello dei 21 milioni per le borse di studio, quello che mi ha permesso di sfiorare, non ancora trentenne, la Presidenza del Partito liberale radicale ticinese. Il Ticino che osa, non quello che, per conservare privilegi e posizioni, o per pigrizia, ha paura del nuovo.

Credo nell’intergenerazionalità: vi è infatti un potenziale sociale, economico e persino occupazionale nella collaborazione fra giovani e meno giovani, perché le qualità si completano, mentre le quantità si contendono. Ma non può esistere intergenerazionalità senza apertura del sistema. I giovani non pretendono certo il tappeto rosso, ma almeno una porticina: non ne va solo del futuro di chi oggi è giovane, ne va del futuro di tutti. Altrimenti, ad esempio, chi le finanzia le assicurazioni sociali?

Prima pagina di Opinione liberale

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