ACCENT – Das Organ der Jungfreisinnigen Schweiz: “Jungunternehmen” (02/08)
Jungunternehmen ; jeunes entreprises ; nuove imprese ; start up companies
Nicola Pini, Vorstandsmitglied jfs und Chefredaktor Accent
(editorial, publié in ACCENT, Ausgabe 02/08)
Jungunternehmen ; jeunes entreprises ; nuove imprese ; start up companies: le thème est intéressant et stimulant, mais doit être abordé d’une manière sérieuse. En effet, si d’un côté le fait de devenir un entrepreneur peut constituer un objectif assez répandu – notamment chez les jeunes, qui sont par définition plus ambitieux et dynamiques que les personnes plus âgées – d’un autre côté le chemin vers l’indépendance cache toute une série de défis qui peuvent transformer le rêve du jeune entrepreneur en cauchemar. Un simple chiffre suffit à témoigner du danger : environ la moitié des personnes qui se lancent font faillite durant les trois premières années d’activité. Bref, la décision de devenir entrepreneur doit être pensée et calculée, car le candidat doit être conscient à la fois de l’importance de la préparation et des obstacles qu’il doit contourner. Les pages suivantes se focalisent justement sur ces difficultés, en démontrant qu’elles sont surmontables : en effet, des jeunes entrepreneurs montrent que le rêve de l’indépendance peut parfois devenir réalité. Après ces contributions, si les défis énumérés ne vous ont pas découragés, vous pourriez vérifier dans quelle mesure vous avez les capacités pour entreprendre une activité autonome. Sans trop se fier à ce genre de tests, ce petit jeu – « Êtes-vous un entrepreneur ? » – peut quand même vous donner un premier avis, positif ou négatif. Le test étant réussi cum laude, vous avez la possibilité de profiter de l’offre spéciale dont les Jeunes Libéraux Radicaux Suisses bénéficient : contactez donc STARTUPS.CH !
En effet, la création des nouvelles entreprises concrétise un des piliers de l’esprit libéral, à savoir l’initiative personnelle. C’est pourquoi les Jeunes Libéraux Radicaux – depuis toujours sensibles à la création de richesse et de postes de travail – se battent pour une simplification des tâches administratives pour les entreprises, comme le prouve, entre autre, notre soutien à la réforme de la TVA proposé par le Conseiller fédéral Merz, qui postule l’introduction d’un taux unique.
La lezione della scissione del 1934: il PLRDT
Le lezioni della scissione del 1934
L’avventura del PLRDT evidenzia l’importanza dell’unità e del movimento giovanile
Nicola Pini, membro del comitato direttivo GLRS e del comitato JLR Unil-Epfl
(pubblicato in Opinione Liberale, 19.06.2008)
A pochi mesi dalla fusione del Partito Liberale Radicale Svizzero con i “cugini” del Partito Liberale Svizzero (PLS), prevista per il prossimo ottobre – unione peraltro già concretizzata dai rispettivi movimenti giovanili lo scorso mese d’aprile – vale la pena rispolverare qualche vecchio documento per ricordarci che una divisione simile si manifestò pure alle nostre latitudini: il Partito Liberale Radicale Democratico Ticinese (PLRDT), infatti, calcò il terreno dell’arena politica ticinese tra il 1934 e il 1946 opponendosi, talvolta ferocemente, all’ufficiale PLRT, ristrutturando dunque il panorama politico cantonale per oltre un ventennio.
Il PLRDT (1934-1946)
Il nuovo partito, creatosi ufficialmente il 18 febbraio 1934, scaturì dall’integrazione della “Federazione Gioventù Liberale Radicale Ticinese” (FGLRT), dei “Franchi Liberali Luganesi” e dei democratici di Locarno e Giubiasco; in breve, dall’unione tra il movimento giovanile e l’ala sinistra del PLRT. Un ruolo chiave fu giocato non solo dal foglio “Avanguardia”, che diventò l’organo ufficiale del PLRDT, ma pure da personalità di spicco del liberalismo ticinese quali Camillo Olgiati, Alberto De Filippis, Giovan Battista Rusca e Guido Guglielmetti. In sintesi, la scissione del 1934 è dovuta principalmente a tre divergenze interne al partito, quali l’attitudine verso il fascismo, la sensibilità riguardante la questione sociale e, infine, la possibile intesa con i socialisti di Canevascini: in effetti, “Fronte Unico antifascista, liberalismo sociale, tutela dei ceti medi, ma anche democrazia governante, costituivano […] l’ossatura programmatica del partito” scissionista (Macaluso Pompeo, Liberali antifascisti – Storia del Partito Liberale Radicale Democratico Ticinese, Locarno: Armando Dadò editore, 2004, p. 234). In ogni caso, dopo un inizio di duro confronto, il mutare del corso degli eventi internazionali e il ricambio generazionale all’interno delle varie correnti placarono le divergenze rendendo così la fusione ineluttabile nel 1946. La vicenda PLRDT lasciò però il segno in quanto gli anni successivi si caratterizzarono proprio da quell’Intesa di sinistra con il partito socialista fortemente e costantemente auspicata dagli scissionisti.
Gli insegnamenti
Ma ciò che più mi ha colpito durante la lettura dell’appassionante saggio di Pompeo Macaluso è l’incredibile attualità di due messaggi che, senza cadere nell’anacronismo, l’avventura del PLRDT può veicolare.
Il primo messaggio, abbastanza esplicito, è evidentemente quello dell’importanza fondamentale dell’unità del partito: se lo scambio dialettico costituisce – lo si sente (giustamente) ripetere in continuazione – un punto di forza del Partitone, esso deve restare costruttivo e riconciliante, ma soprattutto deve evitare il pericolo dell’estremismo e dell’esasperazione. Siamo “un” partito, siamo “il” partito: insieme si governa il Cantone, divisi si resta ai margini del potere, la Storia ce lo indica chiaramente. E, andreottianamente, che il potere logora chi non ce l’ha…
Il secondo messaggio, più implicito, riguarda l’importanza del movimento giovanile, vero e proprio motore della scissione del 1934. I “giovani”, infatti, perché non ascoltati – per contrastare l’incondizionato antifascismo della FGLRT i dirigenti del partito volevano addirittura abbassare l’età di appartenenza al movimento e integrarlo alle sezioni comunali! – hanno deciso di separarsi dai “grandi”, per poi riconfluire alla casa madre nel Dopoguerra, con più peso, tanto da vedersi accontentare per quanto riguarda la direzione da imboccare per il ventennio successivo. Senza volerci soffermare sulle differenze di pensiero fra i due movimenti interni al partito dell’epoca, la vicenda costituisce non solo una vera e propria dimostrazione dell’importanza delle giovani leve in seno al partito, ma soprattutto un segnale di quanto il movimento giovanile possa apportare a quest’ultimo, grazie al suo dinamismo e alla sua vitalità. La volontà del giovane liberale radicale di imparare dai membri più esperti del partito, insomma, si deve indissolubilmente appaiare ad una considerazione e a una disponibilità da parte dei veterani: ecco la ricetta di oggi per garantire un domani radioso e, di conseguenza, targato PLR!
Supplemento sulla Centovallina
Supplemento sulla Centovallina
Nicola Pini, Presidente STOICA (Associazione degli studenti ticinesi a Losanna)
(pubblicato in La Regione, 28.05.2008)
Hai l’abbonamento generale? Sei studente? Fa niente, paga il supplemento!
Il Comitato della STOICA, l’Associazione degli studenti ticinesi a Losanna, si sente in dovere – a tutela dei diritti dei quasi 800 studenti ticinesi residenti sulle sponde del Lemano – di denunciare pubblicamente una situazione che ritiene scandalosa, ovvero l’imposizione di un supplemento di due franchi per l’utilizzo del treno panoramico sulla Centovallina che copre la tratta fra Locarno e Domodossola. Già l’imposizione di una tassa supplementare risulta altamente sconveniente, ma se si pensa che non esiste possibilità di scelta visto che tutto il treno – e non il singolo vagone – è panoramico, la pretesa da parte della dirigenza della SSIF – Società Subalpina di imprese ferroviarie – risulta addirittura offensiva e antiliberale.
Quando il calcio entrò nelle case
Quando il calcio entrò nelle case
Nicola Pini e Matteo Rossi
(pubblicato in Azione, 06.05.2008, p. 45)
Gli ormai imminenti Europei di calcio ci ricordano come non sia la prima volta che una grande manifestazione calcistica venga organizzata alle nostre latitudini: la Svizzera, in effetti, ospitò i Campionati del mondo nel 1954. Al di là dei risultati prettamente sportivi – che videro una sorprendente Germania trionfare dopo una combattuta finale sulla leggendaria Ungheria di Puskas, con un’ottima Svizzera arenatasi sullo scoglio dei quarti di finale contro l’Austria – i Mondiali del 1954 offrono interessanti spunti da un punto di vista mediatico.
La Radio
Gli anni Cinquanta rappresentano l’apogeo della radiofonia, che si diffonde in tutti gli strati sociali raggiungendo, in Svizzera, la ragguardevole soglia del milione di concessioni. Lo sport, in particolare il ciclismo e il calcio, si rivela particolarmente radiogenico: la radio, infatti, valorizza il rapporto dialettico tra elementi prevedibili, come l’ora d’inizio e la posta in gioco, ed elementi imprevedibili, come lo svolgimento o il risultato della gara. Per la prima volta, grazie al media radiofonico, i tifosi possono seguire in diretta l’evento – sentendo addirittura in sottofondo i rumori tipici dello stadio – senza recarsi direttamente sul luogo della manifestazione: il réportage sportivo, in effetti, permette di annullare le distanze, dando così la possibilità ad un tifoso ticinese di seguire le partite della nazionale elvetica anche se queste si svolgono a Basilea o Ginevra. Inoltre, il fascino della diretta, contrapposto al prima o dopo della stampa, permette di vivere istantaneamente e soprattutto intensamente l’incontro, minuto per minuto, emozione su emozione, in una sorta di dramma sonoro.
La figura chiave della diretta radiofonica è, evidentemente, il reporter: gli odierni spettatori, che seguono una partita di calcio in televisione, possono guardare direttamente le immagini e giudicare loro stessi l’andamento del match, la voce del cronista è dunque sussidiaria; al contrario, un ascoltatore radiofonico risulta assolutamente dipendente da questa voce. La vivacità del reporter è indispensabile per accaparrarsi l’attenzione dell’uditorio: il suo tono concitato durante i momenti più salienti dell’incontro si differenzia da un tono di voce più neutro nei passaggi meno importanti della gara. Riascoltando la radiocronaca di un cronista romando, Marcel Suez, in arte Squibbs, durante la partita Svizzera-Italia giocata a Basilea il 23 giugno 1954 – che ha permesso agli elvetici di accedere ai quarti di finale della manifestazione – si nota come il reporter si comporti da vero tifoso: quando i rossocrociati segnano una rete esplode in urla di gioia, mentre la sua reazione è molto più contenuta quando gli italiani mettono a segno il goal della bandiera. Gli ascoltatori radiofonici sono chiamati in causa più volte dal cronista che chiede loro di tenere i pugni per la nazionale elvetica; le emozioni sono trasmesse in diretta, lo spettatore presente allo stadio e gli ascoltatori radiofonici condividono gioie e dolori. Il pubblico presente a Basilea disturba anche il lavoro del cronista, infatti Squibbs afferma, dopo una rete elvetica, di non riuscire a vedere il terreno di gioco per colpa di alcuni tifosi ticinesi che festeggiano davanti alla sua postazione. Uno scalmanato spettatore è persino riuscito a strappare il microfono dalle mani del cronista e a urlare la propria soddisfazione agli ascoltatori radiofonici. La vivacità di questa radiocronaca e le emozioni trasmesse sono il segno dell’epocale cambiamento apportato dalla radio al mondo sportivo.
Le caratteristiche vincenti della radio – istantaneità e emozione – sommate alla congiuntura favorevole dell’ambiente circostante, ne fanno dunque la vera protagonista mediatica della quinta edizione dei Mondiali di calcio. Oltre alle trasmissioni a livello nazionale, sono da segnalare ben 332 trasmissioni dirette a destinazione di paesi stranieri, alle quali si sommano 126 emissioni serali trasmesse sulle onde corte in direzione dell’America Latina, per un totale dunque di più di seicento ore di trasmissione, con reporter radiofonici arrivati da tutto il mondo per assistere alla competizione – sono sei le radio brasiliane, con una trentina di reporter, 4 quelle provenienti dall’Uruguay, una dagli Stati Uniti. La società svizzera di radiodiffusione (SSR) ha, dal canto suo, assicurato tutte le infrastrutture tecniche, mobilizzando tutti i suoi tecnici, un centinaio, e rivolgendosi pure a degli ausiliari.
Federalismo sportivo?
Un’attenta analisi della programmazione radiofonica durante la manifestazione calcistica evidenzia certo un grande aumento delle ore dedicate allo sport, tematica solitamente limitata alla domenica, ma soprattutto sottolinea una grande differenza fra, da una parte, l’emittente della svizzera tedesca e, dall’altra, quelle della svizzera italiana e romanda. Sia analizzando una giornata tipo, sia adottando una vista più generale sull’arco di tutto il torneo ci si rende effettivamente conto di come la competizione trovi quantitativamente e qualitativamente più spazio nelle stazioni radio latine, RSI e RSR, rispetto a quella tedesca, la DRS.
Come spiegare questa dissonanza, dunque? Una prima spiegazione si può ritrovare nella linea di condotta aziendale della DRS, una stazione che ha sempre accentuato la missione educativa e informativa della radio, appoggiandosi su un postulato secondo il quale un alleggerimento della tematica conduce sistematicamente ad un abbassamento della qualità: un’emittente più culturale che ricreativa, dunque, e questo nonostante le critiche di alcuni ascoltatori. Accanto a questa imposizione dall’alto verso il basso, voluta dai dirigenti, si configura una seconda ipotesi che, invertendo l’ordine della causalità, parte invece dal basso, dagli ascoltatori: Torreggiani, infatti, mostra – nella sua tesi di laurea incentrata sulle radiocronache sportive in Ticino – come sia la società ticinese a determinare lo spazio che la RSI riserva allo sport nei suoi palinsesti. Si potrebbe dunque pensare ad una differenza culturale tra i due blocchi, differenza suffragata in primo luogo da un’inchiesta del 1957, secondo la quale le trasmissioni non suscitano la stessa approvazione in tutte le regioni linguistiche, e, secondariamente, da una presa di posizione di Vico Rigassi, leggendario radiocronista sportivo, che descrive una grande differenza nell’approccio tra i giornalisti sportivi latini e quelli di lingua tedesca. Lo storico Theo Mäusli, suggerendo come i radioascoltatori comincino ad apprezzare lo sport ascoltandolo, fornisce una chiave di lettura che permette di sposare le due ipotesi precedenti: la DRS inserisce nella sua programmazione meno sport che dunque stenta ad appassionare i radioascoltatori, che di conseguenza si mostrano meno interessati dalle cronache dirette degli eventi stessi, formando così un circolo vizioso suscettibile di spiegare la differenza descritta precedentemente.
La prima volta della TV
Per la prima volta nella massima rassegna calcistica mondiale alcuni incontri, dieci su ventisei per la precisione, passarono alla televisione: la TV svizzera, mobilizzando un centinaio di collaboratori per ognuno dei reportage effettuati, riuscì in effetti a trasmettere le immagini alle televisioni di tutta Europa. Un risultato stupefacente – visto che la televisione svizzera si trovava, all’epoca, in fase sperimentale, con solamente una-due ore di trasmissione giornaliera – che permise di far conoscere e apprezzare lo strumento audiovisivo in tutto il paese: le concessioni televisive raddoppiarono in pochi mesi, fissandosi, nel 1955, a cinquemila. Anche se, bisogna sottolinearlo, pagare la concessione non significava necessariamente poter usufruire pienamente del servizio televisivo, come lo dimostra la situazione, paradossale, degli sportivi ticinesi che, anche pagando il canone, non ricevettero sugli schermi dei propri televisori i programmi nazionali sino al 1958 e si videro perciò costretti a guardare le partite del Mondiale sul canale italiano, captabile in alcune zone del Cantone dal gennaio 1954. In effetti, le allora PTT installarono un ponte radio sul Monte Generoso per trasmettere le immagini in Italia, senza preoccuparsi del fatto che le emissioni non potessero essere captate in Ticino: le immagini sorvolavano letteralmente le teste dei ticinesi, scatenando veementi proteste sulla stampa e una stizzita reazione del Consiglio di Stato. In ogni modo, la TV irrompe prorompente nel mondo dello sport inaugurando così un tendenza ancora in auge al giorno d’oggi. Tendenza peraltro già annunciata in una lungimirante previsione da Vico Rigassi che, in un articolo scritto per il libro commemorativo della manifestazione pubblicato nel 1955, afferma come la televisione si appresti a conquistare il mondo: detto, fatto.
No alle naturalizzazioni democratiche volute dall’UDC : Il caso emblematico di Hermann Hesse
No alle naturalizzazioni democratiche volute dall’UDC : Il caso emblematico di Hermann Hesse
Nicola Pini e Stefano Rizzi, membri comitato direttivo Giovani Liberali Radicali Svizzeri (GLRS)
(pubblicato in Opinione Liberale, 02.05.2008, p. 5)
In linea con quanto deciso durante l’ultima assemblea dei delegati dei Giovani Liberali Radicali Svizzeri (GLRS), vorremmo sensibilizzarvi – per mezzo di un caso emblematico come quello dell’illustre scrittore Hermann Hesse – sull’importanza di respingere l’iniziativa UDC per le naturalizzazioni democratiche. Sebbene l’attuale legislazione sia ben lontana dalla perfezione, accettare la proposta in votazione equivarrebbe a passare letteralmente dalla padella alla brace: la naturalizzazione non deve in effetti essere concepita come un processo strettamente politico, bensì come un procedimento politico-amministrativo di competenza di un’istanza specifica che si occupa approfonditamente del singolo caso analizzando dati oggettivi, e non di certo a discrezione di tutta la popolazione residente nel comune che, è impensabile negarlo, prenderebbe la propria decisione basandosi principalmente su degli elementi soggettivi, cavalcando l’onda emotiva dei preconcetti e dei pregiudizi, siano essi positivi o negativi.
Il caso Hesse, come già accennato, risulta essere paradigmatico, soprattutto se affrontato con quella griglia d’analisi che è l’“histoire contrefactuelle”. Hesse, residente per oltre un quarantennio a Montagnola, non era amato da tutta la popolazione, in quanto molti lo ritenevano stravagante e arrogante, mentre alcuni lo credevano addirittura – e ingiustamente – un filo-nazista; al contrario, pochi avevano letto i suoi libri e percepivano l’eminente statura morale e letteraria del personaggio. In una votazione popolare, dunque, egli avrebbe con tutta probabilità visto rifiutarsi la cittadinanza svizzera – che invece gli fu concessa – e gli svizzeri avrebbero perso l’onore di avere tra i propri concittadini un Premio Nobel per la letteratura; un premio che Hesse ritirò appunto come svizzero, riempiendoci di gioia e di orgoglio. Anacronisticamente parlando, dunque, lasciamo che l’Hermann Hesse di turno sia giudicato da un’autorità competente, che parli con lui, che comprenda che non è filo-nazista, che abbia letto i suoi libri, che possa quindi prendere una decisione sulla base di elementi oggettivi e dunque con cognizione di causa, piuttosto che affidarsi a un verdetto determinato – lo ripetiamo – perlopiù da pregiudizi e da preconcetti non sempre fondati su basi meritocratiche. Non tutti possono essere svizzeri, ci viene ripetuto: allora, amiche e amici, facciamo in modo che chi sia naturalizzato diventi svizzero con criterio, con giudizio e con merito. Senza contare che, infine, una decisione presa alle urne non potrebbe essere oggetto di ricorso: violerebbe pertanto i principi di uno stato di diritto in cui – fortunatamente – viviamo.
La scuola prima del Franscini
La scuola prima del Franscini
La scuola “ticinese” tra 1500 e 1800: una realtà sociale forse sottovalutata
Nicola Pini e Matteo Rossi
(pubblicato in Azione, 11.12.2007, p. 2)
Vista la cadenza del 150° anniversario della morte di Stefano Franscini, avvenuta nel 1857, non si fa che illustrare il ruolo del Padre della popolare educazione, senza però soffermarsi su quello che era la scuola pre-fransciniana, una scuola che ha fornito allo statista ticinese delle fondamenta sulle quali costruire un sistema scolastico pubblico, solido ed efficace. Premessa: il ruolo del Franscini è stato senza dubbio fondamentale; non solo ha generalizzato la scuola concretizzando l’obbligo di frequenza e l’allargamento dell’istruzione alle ragazze, ma ha pure fatto in modo che lo Stato – il Canton Ticino – ne prendesse saldamente in mano le redini, assicurando dunque un buon funzionamento e, soprattutto, una continuità dell’istituzione scolastica. Ben lungi dal voler sminuire il ruolo avuto dal Franscini, dunque, lo scopo è quello di esplorare la scuola tra il 1500 e il 1800, ovvero prima della sua istituzione da parte dello Stato negli anni trenta/quaranta dell’Ottocento, e quindi prima dell’intervento dello stesso Franscini, che non può essere considerato come l’anno zero dell’istruzione scolastica nella nostra regione.
Bisogna infatti notare come la rete scolastica nei Baliaggi svizzeri d’Italia, che dal 1803 formeranno il Canton Ticino, si è costituita progressivamente già a partire dal XVI° secolo, per raggiungere, alla fine del XVIII°, un livello ragguardevole: lo storico Ivan Cappelli (cfr. Cappelli I., Manzoni C., Dalla canonica all’aula – Scuole e alfabetizzazione da San Carlo a Franscini, Pavia, 1997) mostra come alla fine del Settecento siano ben 238 le scuole riscontrate complessivamente sul territorio. In altre parole, alla nascita del Franscini, sul calare del Settecento, il 90% delle comunità è già stato dotato di una scuola propria. Certo Cappelli si limita a considerare gli atti di fondazione delle scuole, senza preoccuparsi di un eventuale scioglimento di quest’ultime, ma il suo studio lascia comunque intendere una certa tendenza espansiva degli apparati scolastici, come anche – e soprattutto – un crescente interesse manifestato dalle diverse comunità per quanto riguarda l’istruzione.
Come spiegare, dunque, questa precoce e capillare diffusione delle scuole iniziata già nella seconda metà del Cinquecento? Il pregevole studio di Cappelli e Manzoni ci suggerisce tre fattori che, ben radicati e accavallati nella realtà sociale ed economica della regione, hanno spinto le comunità locali a dotarsi di una scuola. Un primo input, riscontrabile soprattutto nel Sottoceneri, è dato dalla presenza dei maestri d’arte (capimastri, tagliapietre, marmorini, stuccatori, ecc.) che, per poter esercitare al meglio le loro attività professionali e artistiche, necessitavano di un’istruzione vasta che spaziava dalla lettura alla scrittura, dal disegno tecnico al calcolo. Secondariamente l’emigrazione, un fenomeno strutturale nelle società alpine e prealpine che non ha risparmiato la nostra regione: saper leggere e scrivere per avere migliori possibilità lavorative all’estero, per poter controllare i propri affari autonomamente ma soprattutto per poter comunicare epistolarmente con i famigliari. Da notare come non solo l’emigrazione qualificata dei cosiddetti maestri d’arte sia stato un fattore propulsore dell’istruzione, ma pure l’emigrazione non qualificata, quella degli spazzacamini della Valle Verzasca per intenderci, che ha permesso alle Valli di raggiungere un notevole livello di insediamenti scolastici. La condizione di piccoli proprietari terrieri costituisce il terzo fattore di spinta verso la scolarizzazione: per amministrare e gestire a dovere i propri possedimenti l’istruzione di base era necessaria, se non fondamentale. Raffaello Ceschi (Ceschi R., “La scuola per formare il cittadino”, in Nel labirinto delle valli. Uomini e terre di una regione alpina: la Svizzera italiana, Bellinzona, 1999) aggiunge infine un fattore politico, l’autogoverno: l’amministrazione del territorio e dei beni comuni era infatti opera di istituzioni locali e democratiche – alle quali evidentemente si sovrapponevano i landfogti, le autorità designate dai cantoni elvetici – composte, a turno e secondo cariche rotative, da alcuni membri della comunità stessa. Ciò imponeva dunque la presenza di individui forniti dell’istruzione basilare e in grado di assumere a turno le diverse cariche amministrative e cancelleresche. Anche se, paradossalmente, il sindaco di Bodio, paese natale del Franscini, si dichiara essere, ancora nel 1821, analfabeta.
La formazione di un numero importante di scuole nella regione è dunque il frutto di una domanda proveniente dal basso, dalle comunità, dai singoli cittadini, dalla popolazione stessa in ragione di un contesto sociale, economico e politico particolare che richiedeva, per un motivo o per l’altro, un’istruzione di base. È la società stessa – o quantomeno una parte di essa – che esigeva una scuola, che ne sentiva il bisogno vitale, come lo testimonia d’altronde il numero importante di lasciti o legati in suo favore.
Resta da vedere chi ha risposto a questa richiesta, a questa esigenza di istruzione da parte delle comunità. Se da un lato il ruolo dello Stato è stato pressoché trascurabile sino all’intervento del Franscini – i Cantoni Sovrani e la Repubblica Elvetica non hanno agito concretamente, limitandosi a qualche sporadico proclamo, mentre la legge promulgata nel 1804 dal neonato Canton Ticino non conosce, nella pratica, una reale applicazione – dall’altro il ruolo della Chiesa è stato più rilevante, anche se, per la scuola del futuro Ticino, non fu tanto importante la Chiesa in quanto istituzione, ma piuttosto la sua base, composta dai parroci di paese e quindi da quella parte del clero più vicina alla gente, più a contatto con la realtà sociale del paese e dunque più incline ad esaudirne le richieste. Il parroco, in effetti, cristallizza in sé la figura del maestro per eccellenza della scuola pre-fransciniana, in ragione della sua disponibilità, del basso costo economico (spesso l’obbligo di insegnare era inserito nei doveri di parroco, e dunque gratuito) e del suo stato culturale elevato, specialmente dopo la Controriforma voluta dalla Chiesa per contrastare la Riforma protestante.
Nell’ottica di un discorso più qualitativo, Cappelli distingue le scuole informali da quelle formali: se le prime dipendono esclusivamente dall’arbitrio del cappellano, le seconde sono rette, alla loro base, da un documento che impone al parroco di tenere a scuola li filiuoli; una specie di contratto – il capitolato – di cui il più antico, datante 1545, obbliga il parroco di Meride ad insegnare ai ragazzi del paese a leggere, scrivere e le buone maniere. Le scuole formali, sempre più numerose con il passare del tempo, sono evidentemente le più sicure e durature in quanto poste sotto il controllo e la tutela costante della comunità che, in caso di insoddisfazione, poteva rivolgere una lamentela direttamente al vescovo. La frequentazione delle lezioni poteva essere a pagamento oppure gratuita: in quest’ultimo caso il costo del prete-maestro era assorbito da qualche lascito/legato oppure pagato dalla comunità stessa attraverso i vicini, gli odierni patrizi. Da notare come nel Sottoceneri dominino le scuole a pagamento in ragione della grande importanza dell’artigianato nella regione: l’artigiano ha la volontà di garantire un buon lavoro ai discendenti e soprattutto possiede i mezzi finanziari per mandare il proprio figlio a scuola; al contrario nelle Valli sopracenerine, vista la povertà che vi regna sovrana, prevalgono le scuole gratuite: una scuola a pagamento sarebbe al di sopra delle possibilità degli abitanti delle Valli a volte già di per sé reticenti – si consideri che, anche se gratuita, la scuola costituiva un manco di guadagno visto che i ragazzi non lavoravano e, al contrario, si limitavano a consumare. Anche se, comunque, la copertura scolastica, durante l’anno come giornalmente, era strettamente legata, se non dettata, dai bisogni economici della comunità e dunque dall’agricoltura o dall’allevamento.
Si nota dunque una scuola che si plasma, che si modella in funzione della società: una scuola che deve in primo luogo rispondere alle esigenze socioeconomiche delle comunità che ne favoriscono la fondazione e che ne assicurano il mantenimento. Una scuola sulla cui efficacia si può certo disquisire e dibattere, specialmente per quel che concerne la scarsa frequentazione o i modelli didattici d’insegnamento, ma comunque una realtà concreta (dominano infatti le scuole formali), capillarmente diffusa, fortemente voluta dalle comunità e, come detto, strettamente funzionale ai bisogni della società: se il Ticino è a metà Ottocento una delle aree più alfabetizzate d’Europa lo si deve anche alla scuola pre-fransciniana. L’importante intervento del Franscini, dunque, sistematizza, generalizza e istituzionalizza una scuola che ha già mosso, autonomamente, qualche (timido) passo.
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