11 settembre

Il dovere della memoria

Passeggiando per le strade ticinesi in questi giorni mi è più volte capitato di udire – per poi ritrovarli nero su bianco nelle Lettere dei lettori reperibili sui quotidiani locali – commenti negativi relativi al decimo anniversario dell’11 settembre. È purtroppo vero che sia la storia recente sia la cronaca contemporanea presentano svariati e toccanti esempi di tragedie, spesso con molti più morti dei 2996 del 9/11: ma è davvero di questo che stiamo parlando? Il punto è davvero un’assurda bilancia in cui dolore, frustrazione, voglia di ricordare – e non dimenticare – vengono più o meno legittimate in base alla quantificazione o all’enumerazione delle tragedie che ci circondano?

Certo, molto si è scritto sull’undici settembre: inserti ed approfondimenti sicuramente più toccanti e rivelatori di questo. Ma prima di parlare di overdose informativa (in breve, il classico “se ne è parlato troppo”), prima di paragonare calamità e tragedie cercando un senso ad alcune e sminuendone altre in base a criteri discutibili – come il numero di morti – occorre forse pensare alla funzione del semplice ricordare e non dimenticare. “Chi non conosce la storia è condannato a ripeterla” mi ha insegnato un caro amico: lo sapeva anche Primo Levi che, dopo aver passato gran parte della sua esistenza a scrivere e raccontare la sua drammatica esperienza nel campo di concentramento di Auschwitz, negli anni Ottanta si è suicidato perché non sopportava l’idea che le nuove generazioni poco o nulla sapevano di quanto operato dai nazisti.

Credo dunque occorra non solo sopportare, ma addirittura ascoltare le parole di chi quel giorno si trovava in zona a vendere hot dog e non è morto; di chi oggi ha 10 anni ed era a chilometri di distanza, nell’utero di una donna che sarebbe presto diventata vedova; di chi, pur essendo una casalinga ticinese lontana decine di ore di volo da Ground Zero, tra lo stirare una camicia e l’altra si è ritrovata a piangere senza sapere bene il perché, sicuramente non per la morte di figli suoi.

L’ha detto Noam Chomsky, assai più autorevole e coinvolto di me: sono l’enormità e le proporzioni della violenza gratuita perpetrata da uomini su altri uomini ignari a rendere l’undici settembre certo non più grave di tante altre date, ma quantomeno non classificabile dal numero dei nomi scritti sul memoriale. E soprattutto, una data degna di memoria: perché, che se ne dica, l’intolleranza e la violenza cieca vanno condannate sempre e comunque, senza possibilità di attenuanti numeriche e ideologiche, senza scusanti né giustificazioni.

Perfino gli Stati Uniti d’America sembrano aver tratto benefici dalla commemorazione, dal ricordo. Barack Obama, ieri, accompagnato non solo da Michelle ma anche da colui che lo precedette nel ruolo di Presidente, ha affermato che “There should be no doubt: today America is stronger” (Non c’è alcun dubbio: oggi l’America è più forte): nel mezzo di una crisi economica di proporzioni mai viste, con un Parlamento che non riesce a smettere di litigare e un tasso di disoccupazione alle stelle (altro che il nostro 5%!), Obama ha osato dire che l’America sta meglio rispetto a 10 anni fa. Nelle parole di Obama io non leggo pazzia o farneticazione, leggo piuttosto determinazione e tenacia, quella di JFK e di Luther King, quella di Roosevelt che, dopo Pearl Harbor, si alzò decrepito dalla sedia a rotelle trascinando con sé una nazione intera; forse anche quella del “Yes, We can” – SI PUÒ FARE! – che ad Obama portò onori ed oneri. E in questo senso è forse vero che l’America oggi è più forte, non tanto perché più unita (vedremo fino a quando…), ma soprattutto perché più aperta perché consapevole della sua vulnerabilità, della sua fallibilità e dei suoi limiti.

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