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Dentro il partito: il PLR

I candidati al Governo ticinese intervistati da Massimiliano Herber

Ospiti della quinta puntata di “Dentro il partito”, i candidati al Consiglio di Stato ticinese della lista del PLR: Michele Bertini, Alex Farinelli, Natalia Ferrara Micocci, Nicola Pini e Christian Vitta.

Rivedi la trasmissione del 23 marzo 2015

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Albachiara intervista Nicola Pini: “Idee, confronto e dialogo”

“Buongiorno Ticino. Ripartiamo dopo, spero, qualche ora di sonno. Ripartiamo per una nuova giornata. E ripartiamo anche per un futuro politico fatto di idee, di confronto e di dialogo: Ripartiamo assieme, se lo vorrete. Politicamente sono stato presidente cantonale e vicepresidente nazionale dei giovani liberali, sono presidente distrettuale del Locarnese, sono stato candidato al consiglio Nazionale nel 2011 e nel 2012 ho sfiorato per una manciata di voti la presidenza del partito, di cui sono vicepresidente. E sono felicissimo di poter passare questa mattinata assieme a voi”.

Ascolta la trasmissione integrale

RSI, Albachiara, mercoledì 8 aprile 2015

 

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“Più impegno sulla scuola oggi siamo fra gli ultimi per la spesa pro capite”

Avere due miliardi da investire sarebbe un sogno”. E il sogno di Nicola Pini, 30 anni, candidato plrt, è quello di una politica che prima di tutto pensi a migliorare le condizioni quadro per un rilancio del Ticino. “Il primo ambito d’investimento dovrebbe essere quello della formazione, della scuola, della cultura”. Un obiettivo che parte da una constatazione critica sullo stato attuale: “Oggi come Ticino spendiamo poco per la scuola, siamo fra gli ultimi Cantoni per spesa pro capite per allievo. Dobbiamo invertire la tendenza”.

Anche senza avere proprio tutti e due i miliardi, per Pini, è necessario investire di più nella scuola dell’obbligo, nei servizi parascolastici, nelle mense, nei trasporti, nel doposcuola, nell’orientamento professionale. “Occorre poi promuovere un cambiamento culturale nelle famiglie e nei giovani verso la formazione professionale, che oggi può garantire anche una migliore prospettiva di carriera rispetto al liceo”, sostiene Pini, che punterebbe in modo consistente sulla formazione continua: “Dobbiamo renderci conto che il posto fisso oggi non esiste più, che nel corso della vita professionale occorre rinnovarsi, adeguarsi, migliorarsi. Cambiare. Per questo nell’attuale mercato del lavoro l’investimento nella formazione continua diventa un’esigenza sempre più forte”.

Formazione, ma anche sostegni all’innovazione, alla ricerca, alle start-up più che mai necessari per potenziare le condizioni quadro del “sistema Paese”. “Ma non bisogna dimenticare gli investimenti per le infrastrutture. Penso alla mobilità fisica, al miglioramento dei collegamenti ferroviari necessari con l’arrivo di Alp Transit, ma anche a quelle stradali ormai molto intasate. Mobilità fisica e mobilità dei dati, ovvero connettività veloce per tutti che deve diventare la nostra nuova frontiera perché significa nuove professioni, nuove modalità di lavori, nuove opportunità per tutti”.

NicolaPini, Vicepresidente del Plrt, 30 anni, di Locarno, candidato liberaleradicale per Consiglio di Stato

Il Caffè, domenica 5 aprile 2015

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La scuola deve venire

La scuola che verrà è la proposta – con pregi e difetti – di Manuele Bertoli per rilanciare il tema formazione nell’agenda politica cantonale. La scuola che non verrà è invece la risposta di non entrata in materia degli oppositori: uno slogan elettoralistico e conservatore che a dirla tutta mi fa rabbrividire, perché la scuola deve venire. E deve venire dopo un profondo e ampio dibattito pubblico. Di questa necessità ne tenga conto chi spinge a tutto gas una nuova e diversa scuola che verrà e chi, invece, sta facendo di tutto per non lasciarla neanche partire. Nell’uno come nell’altro caso la sostanza delle cose non cambierà.

È tempo di intavolare un dibattito vero sulla scuola. Un dibattito che sfugga alle solite tiritere, oscillanti tra il conservatorismo, l’utilitarismo e l’ipocrisia, con proposte semplicistiche e reboanti che pretendono di risolvere tutto: l’educazione civica, l’insegnamento del salmo svizzero, i tablet, le giornate del volontariato, le varie educazioni “mirate” (e fuori contesto).

La buona scuola, infatti, è innanzitutto un’idea. Un’idea di partenza sul senso del suo operato e dunque sul tipo di cittadino e di società che deve contribuire a costruire. In questo senso ogni decisione di fondo sulla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore stesso della politica. La scuola, è giunto il momento di ribadirlo, o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non lo è. Solo così potrà essere ciò che deve essere: un luogo in cui non solo si apprendono nozioni, ma anche dove si formano caratteri e personalità, dove si definisce un approccio al mondo, agli altri, ai problemi e alle opportunità della vita. La scuola di oggi è il Paese di domani, il suo prodotto interno lordo e il suo mercato del lavoro, ma soprattutto i suoi valori, la sua tenuta e la sua coesione.

Tra le cose positive del progetto Bertoli rivedo i valori di sempre (in particolare il concetto di scuola integrativa), il fatto di favorire la collaborazione fra docenti, il desiderio di estrapolare le potenzialità degli allievi e il ritorno di una certa manualità. Tra le cose negative una scarsa attenzione alla scuola dell’infanzia, il delicato passaggio tra scuola media e scuola media superiore (in particolare al Liceo) e la questione – non secondaria – del finanziamento delle riforme. Discutiamone insieme dunque. Perché liquidare la proposta del Decs come ideologica è altrettanto ideologico; e decisamente poco liberale radicale. Anche perché noi siamo per una politica per, non per una politica contro. Soprattutto quando si parla di giovani e futuro.

La Regione, giovedì 2 aprile 2015

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La svolta per una politica dei fatti

GIACOMO GARZOLI, NICOLA PINI

L’ultima seduta del Gran Consiglio, svoltasi a urne aperte, ha ben cristallizzato il clima politico attuale, fatto di proclami vuoti di contenuto, di strategie elettorali a breve e medio termine e di nessuna concretezza realizzativa. Il trionfo della «politica dei segnali». E dire che temi veri, all’ordine del giorno, non ne mancavano.
Si è approvata un’iniziativa popolare sui salari minimi, che tutti sanno essere inapplicabile, invece di assumersi la responsabilità politica di proporre un controprogetto davvero realizzabile. L’importante era evidentemente portare a casa il «risultato» ora, prima delle elezioni, poi succeda quel che succeda, troveranno qualcuno a cui dare la colpa se tutto ciò risulterà inapplicabile. E pazienza se alla fine porterà unicamente ulteriore disillusione, frustrazione e rabbia: altri cavalli neri da cavalcare. Come con l’iniziativa del 9 febbraio: chi ha vinto non sa come applicarla, ma critica gli altri di non farlo.
Non si è invece nemmeno discusso della revisione della Legge sull’AET per definire meglio il controllo dell’ente pubblico sull’ente parastatale. A chi importa di metterci le mani? Meglio aspettare il prossimo scandalo, per poter di nuovo gridare a squarciagola contro lo Stato e la politica, e soprattutto meglio non scontentare qualche centro di potere (o perdere voti magari già segnalati). Spiace, a noi, che anche la sinistra si sia prestata ad un simile gioco al massacro del buon senso. Siamo sicuri di voler proprio tutto ciò? Per quali calcoli elettorali?
Di giochi simili, non siamo ingenui, se ne sono però visti molti anche in passato. Di nuovo c’è l’arrendevolezza. Anche degli irrudicibili, degli impensabili. Quanto accaduto deve far aprire gli occhi. L’antipolitica è ovunque. Non è sufficiente smarcarsi. Noi siamo convinti sia necessario, anzi urgente, un nuovo progetto politico. Un progetto politico non solo di apertura (fisica e mentale), ma anche di coraggio, di trasparenza con i cittadini, di sincerità e di onestà intelletuale. Basta logiche elettoralistiche, partitiche o personali. Un progetto politico al di là degli steccati partitici, che raggruppi tutte quelle persone che non vogliono solo parole, ma fatti; che convogli tutti coloro che non si fermano alla bile e alle antipatie del passato, ma condensano il virtuosismo di chi vuole costruire, di chi vuole realizzare, senza sinistri calcoli politici di bassa lega.
La riforma della legge sull’AET sarebbe stata un’opportunità perfetta, non per lanciare un segnale, ma per cambiare le cose in meglio. I propositi per un salario minimo decente anche. Eppure nessuno dice che né per il primo caso né per il secondo qualcosa di concreto è stato deciso. Nulla, un nulla disarmante.
Corriere del Ticino, 28 marzo 2014
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laregione

Speciale Elezioni – La Regione del 26 marzo 2015

Nicola Pini

Candidato al Consiglio di Stato per il Plr

1 Si dice manchi oggi in Ticino una ‘cultura politica’. Condivide?

La cultura politica non può scindersi dalla cultura democratica, la quale non può sopravvivere senza i partiti, che a loro volta non possono sopravvivere senza il coinvolgimento dei cittadini. Il pensiero liberale e democratico deve dunque tornare ad aprirsi e a riproporre con forza i suoi valori fondanti. E qui non penso solo a libertà, responsabilità, solidarietà e giustizia, ma soprattutto al gusto del dubbio e del dialogo, all’approfondimento, alla tolleranza e al rispetto, sia di chi la pensa diversamente sia delle istituzioni, alla collegialità, alla trasparenza, alla voglia di costruire. Solo così rimetteremo in sesto una democrazia purtroppo oggi malaticcia.

2 Come giudica i rapporti fra Canton Ticino e resto della Confederazione?

Buoni, ma da coltivare maggiormente. Da un lato la Confederazione fatica a capire alcune peculiarità del Ticino, dall’altro il Ticino tende a ricercare sempre delle scorciatoie. C’è chi dice che bisogna battere i pugni sul tavolo per farsi rispettare da Berna, come se l’arroganza pagasse. Io credo invece che dobbiamo presentarci a Berna con argomenti, proposte e persone credibili, magari anche con alleanze puntuali con altri Cantoni: solo così si è ascoltati a Berna. Ho già iniziato a lavorare in questo senso, incontrando consiglieri di Stato di altri Cantoni e portando in Ticino Pierre Maudet, che prima o poi vedremo in Consiglio federale. Tornare a un’empatia vitale è la strada, senza accuse velate e piagnistei.

3 Ticinesi vittime o autolesionisti?

Il ticinese, dopo un passato di coraggio e senso dello Stato, sta vivendo una crisi di fiducia – in se stesso e negli altri – a causa delle false identità, delle denunce strumentali e delle promesse da marinaio portate avanti dall’antipolitica. Si tende così al disfattismo e all’aggressività di chi crede che siano sempre gli altri a doverci salvare la vita (lo Stato) o che siano altri che ce la avvelenano (gli stranieri, l’Europa). Mai come oggi, però, abbiamo la necessità di prendere in mano il nostro futuro, senza paura di rimetterci in discussione: finite le rendite di posizione in ambito economico, finanziario e turistico, sta a noi decidere che Ticino vogliamo. Io lo voglio libero, ottimista, orientato al futuro, aperto e competitivo.

4 Come si conserva l’autonomia cantonale? Cosa non funziona oggi nel federalismo?

Il federalismo è basato su chiari compiti delegati ai Cantoni, che hanno un propositivo margine di decisione. Sempre più, la Confederazione tende a occupare mansioni che prima non le competevano, col risultato di applicare soluzioni che vanno bene a Zurigo ma non sono altrettanto valide in Ticino o nel Giura. Dall’attenzione a tutte le diversità, ora il federalismo tende a omologare, il che è negativo. Credo nel principio della sussidiarietà, inteso come lo svolgere il compito al livello istituzionale più funzionale e prossimo al cittadino: e questo non solo tra Confederazione e Cantoni, ma anche tra Cantoni e Comuni.

5 Favorevole o contrario agli Accordi bilaterali con l’Ue?

Favorevole. Che poi si possano sistemare alcuni aspetti è chiaro: come in ogni rapporto con gli altri, ogni giorno è buono per migliorare. Dobbiamo combattere l’effetto sostitutivo, il dumping salariale e il traffico parassitario là dove ci sono, ma non possiamo fare a meno degli Accordi bilaterali. Anche se impopolare, occorre ribadire che in Ticino la disoccupazione sì aumenta, ma meno rispetto a chi ci circonda; che sì dal 2008 i frontalieri sono aumentati di 18’000, ma che i posti di lavoro in più sono stati 28’000 (10’000 sono dunque andati a residenti); infine che il salario mediano dal 2002 è aumentato di 700 franchi. Chi dice che queste sono cose scontate imbroglia i cittadini e mette a repentaglio il futuro del nostro Paese.

6 Valore aggiunto. Ci faccia un esempio.

Abbiamo diverse aziende nell’ambito dell’elettronica e della meccanica, come nel life sciences e nel biomedicale. Dobbiamo poter attirare e creare quelle aziende innovative che sapranno rilanciare la nostra economia uscendo da quella prigione in cui si è rinchiusa dove il solo “valore aggiunto” sembra essere la manodopera a basso costo. Ma non è facile, perché non c’è la coda di imprese virtuose e le idee geniali non cadono dagli alberi: per questo dobbiamo continuare a investire massicciamente nella formazione, nella ricerca e nelle start-up.

7 Più o meno prestazioni dello Stato e perché?  

Non è questione di più o meno, ma di come e quando. Lo Stato deve investire in salute e istruzione, ricerca e innovazione, cultura e lavoro, senza togliere nemmeno un franco, anzi aggiungendone. Invece di sparpagliare contributi a tutti, anche a chi non ne ha (più) bisogno, lo Stato deve fornire aiuti mirati e al contempo favorire la creazione di posti di lavoro con l’intento di appianare le diseguaglianze sociali.

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Basta disfattismo, ripartiamo!

Tra aperitivi, pacche sulle spalle e sparate grossolane, la campagna elettorale dimentica la sua caratteristica principale: il confronto politico sulle visioni. Si appiattisce su ciò che appare più pagante elettoralmente, con un’inquietante tendenza di molti a imitare, con qualche sfumatura, chi ha vinto le scorse elezioni. Si chiede la fiducia dei cittadini, ma in verità si cerca di ingannarli. Io non ci sto. Perché se oggi non dici la verità, domani non sarai libero di fare il consigliere di Stato. Non farai politica e privilegerai gli inciuci ai ben più nobili compromessi. L’ho imparato lavorando accanto a Laura Sadis un modello quanto a lavoro, rigore, spirito critico e onestà intellettuale: un metodo che non tradirò per qualche like in più su Facebook. Anzi. In questa campagna abbiamo il dovere civile di riaffermare che la politica contro (gli avversarsi politici, il governo, gli stranieri, i frontalieri, Berna, l’Italia, l’Ue) soffocherà il nostro Paese. Che l’antipolitica – sempre più trasversale – è deleteria perché mina la responsabilità individuale, sfalda la società e piccona la fiducia nelle istituzioni, una fiducia che dovremo recuperare tramite il primato della trasparenza e l’inderogabile rispetto della legalità. Dobbiamo avere il coraggio di riaffermare che la politica della chiusura, fisica (dai muri ai contingenti) e mentale (dall’intolleranza a una xenofobia strisciante e pericolosa), impoverirà culturalmente, socialmente e anche economicamente il nostro cantone. Dobbiamo batterci anche contro il conservatorismo. Quello di parte della destra, che vuole un ritorno al passato, ma anche quello di una parte della sinistra che vuole conservare privilegi non più attuali. Con un atteggiamento conservatore forse congeleremmo il presente per un po’, ma non per sempre. Perché in un momento di grandi cambiamenti, dove le rendite di posizione si stanno esaurendo – piazza finanziaria, turismo, ex regie federali –, la vera risposta è guardare avanti. Lo abbiamo fatto negli anni Sessanta e lo dobbiamo fare adesso. Andando oltre le vecchie logiche e contrapposizioni regionalistiche (quasi potessimo esistere gli uni senza gli altri) per costruire una Regione Ticino forte che possa ritagliarsi un posto nel mondo. Senza negare la nostra identità, dalla quale gettare con consapevolezza ponti verso altre culture e altri popoli. Altri popoli da accogliere, purché interagiscano, si confrontino, rispettino gli altri e le leggi. Andando oltre le divisioni che purtroppo esistono ancora tra uomo e donna per abbattere il soffitto di cristallo che c’è ma non si vede, portando avanti un cambiamento culturale nella società, che passa dal ruolo dell’uomo e che va incentivato da alcune misure non solo “per lei”, ma anche “per lui”. Andando oltre la scolarità obbligatoria, perché in un mondo in rapida evoluzione il posto fisso non esiste più: la nuova frontiera è dunque la formazione continua, da coordinare, sostenere e incentivare. Andando oltre la sola quanto fondamentale “libertà di” (di fare, creare e intraprendere) perseguendo anche la “libertà da”: dalle paure, dai condizionamenti – da qui l’importanza non solo di una scuola pubblica forte, di qualità, integrativa, che coltivi i talenti senza perdere nessuno per strada, ma anche della laicità, intesa come il primato della ragione – e soprattutto dai bisogni, perché se non hai un lavoro, o se lo stipendio non ti permette di arrivare alla fine del mese, ne va della dignità stessa dell’individuo nella società. Non c’è libertà senza solidarietà: ricordiamocelo prima che la coesione sociale, conquista e forza del nostro Paese, si sfaldi del tutto. Perché allora sì conosceremo le macerie, le lacrime e il sangue. Ripartiamo non è uno slogan, ma un atteggiamento, quello di chi è stufo della demagogia, del disfattismo, dei complessi di inferiorità mascherati con la spavalderia; quello di chi sa che il futuro può essere nostro solo se continueremo a parlare tra di noi e con gli altri.

La Regione, sabato 21 marzo 2015

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